Alcuni si, altri no.
Spieghiamoci meglio.
Il riferimento normativo è la Direttiva Europea Dispositivi Medici (93/42/CE), recepita in Italia con il DL 46 del 24/2/1997). Essa non dice a priori quali tipologie di dispositivi siano da considerarsi “medici” e quali no.
Essa si limita ai criteri per garantire la sicurezza dei dispositivi che l’acquirente intende considerare “medici”, avendovi ravvisato un rischio clinico dal quale tutelarsi. A tal fine, stabilisce diverse procedure di certificazione (la cosiddetta marchiatura CE) a seconda delle modalità di interazione con il corpo umano e del relativo rischio clinico. Per questo parla di dispositivi in classe I, IIa, IIb, III.
Per i dispositivi in classe I, ossia quelli che, per dirla in parole semplici, interagiscono con il corpo solo in maniera superficiale, è sufficiente l’autocertificazione del produttore. Un ausilio che si volesse certificare come dispositivo medico rientra normalmente in questo caso.
Esempio
Un’ASL fa una procedura pubblica per l’acquisto di carrozzine da prescrivere agli assistiti del proprio territorio. Nel capitolato d’acquisto essa decide di ammettere alla “gara” solo prodotti che riportino il marchio CE di conformità alla Direttiva Dispositivi Medici, ossia carrozzine che in base ad un’analisi di rischio e una serie di test il produttore abbia autocertificato come “sicure”, a patto che siano correttamente adattate all’utente e utilizzate esattamente come indicato nel manuale d’uso. In questo modo, se avvenisse un incidente ai danni della salute dell’utilizzatore, l’ASL sarà tutelata. La responsabilità sarà senza dubbio in capo al produttore, a meno che l’incidente non sia dipeso da imprudenza (utilizzo in condizioni diverse o per finalità diverse da quelle raccomandate dal fabbricante) o imperizia (errore prescrittivo, adattamento errato, istruzioni sbagliate).
Ma allora, se è questione di sicurezza, non è ovvio imporre che qualsiasi ausilio sia certificato come dispositivo medico?
No. Per almeno tre motivi:
1) La certificazione CE ha importanti ricadute sui prezzi.
Autocertificare CE un prodotto è costoso (analisi di rischio, test in sede o esternalizzati a laboratori specializzati, preparazione del fascicolo documentale ecc..): costi che inevitabilmente si propagano sul prezzo del prodotto, in misura tanto maggiore quanto minori sono i volumi di vendita.
2) Non sempre la certificazione CE aggiunge sicurezza aggiuntiva rispetto a quella già garantita dal fatto che il prodotto sia presente sul mercato.
Una posata adattata, una tastiera speciale per computer, un software per la comunicazione o un servoscala hanno potuto entrare sul mercato perché compatibili con normative generali di più alto livello (es. per la forchetta, la non tossicità; per la tastiera, la compatibilità elettromagnetica; per il servoscala, la certificazione 2006/42/CE “Macchine”, ben più stringente della “Dispositivi Medici” sui i veri rischi di questo prodotto, quelli della movimentazione). Quali ulteriori rischi clinici presentano questi ausili, tali da giustificare i costi aggiuntivi dell’autocertificazione Dispositivi Medici?
3) Molti ausili sono un assemblaggio personalizzato di più prodotti e componenti, non solo specializzati ma anche di comune mercato; ogni assemblaggio dovrebbe essere individualmente certificato.
Un tecnico ortopedico, quando realizza una protesi personalizzata, utilizza solitamente componenti già certificati CE, ma per la Direttiva Dispositivi Medici ciò non è sufficiente: il rischio clinico dipende dall’intero assemblaggio, per cui egli deve autocertificarlo assumendosi la responsabilità della sua sicurezza. Prendiamo invece il caso di un ausilio di comunicazione, realizzato attraverso un tablet di comune commercio, un braccio di montaggio proveniente dal mondo delle attrezzature fotografiche, un software dinamico per la comunicazione e alcuni interruttori di comando da posizionare in modo agibile all’utilizzatore. Come si fa a certificare questo assemblaggio ad hoc, questa operazione di “sartoria tecnologica” basata su componenti non certificati come dispositivi medici ma semplicemente conformi ai requisiti di sicurezza comuni delle rispettive categorie merceologiche? E ammesso che si possa fare, quando moltiplica i costi dell’ausilio? E perché sostenere questi inutili costi aggiuntivi, dato che è un chiaro caso di assenza di rischio clinico?
Perché dunque certe ASL chiedono la certificazione CE anche per ausili privi di rischio clinico?
Probabilmente a causa di un’ambiguità linguistica nella seguente frase, che il Nomenclatore riporta in testa agli elenchi 2a (“Ausili di serie che richiedono la messa in opera da parte del tecnico abilitato”) e 2b (“Ausili di serie pronti per l’uso”): “…i dispositivi medici elencati devono essere conformi al d lgs. 24 feb. 1997, n.46 in attuazione della direttiva 93/42/CEE…”.
Per il GLIC è fuori dubbio che – nello spirito della Direttiva Europea e alla luce delle suddette considerazioni – la giusta interpretazione di questa frase è ”…tra i dispositivi elencati, quelli medici devono essere conformi…”, e non che “i dispositivi elencati sono medici”.
In conclusione, il GLIC ritiene non ragionevole, non conforme allo spirito della normativa e dannoso per il Servizio Sanitario Nazionale, imporre la certificazione CE Dispositivi Medici per gli ausili il cui rischio clinico è irrilevante.